12.22.2011

quando il gatto scappa

ci sono giorni bui, in cui senti di doverti mettere addosso i panni giusti degli altri, in cui devi uscire, e il farti coinvolgere è facile, minimo, quasi piacevole.
quelli sono i veri giorni bui.
chi sei? chi sono? ti chiedi, dentro a vestiti sbagliati, scarpe spaiate, calzini di un colore improbabile. a volte ti viene richiesto di metterti maglie rosa, e non le vuoi mettere, ma è un dovere sociale.
è un giorno buio, quando devi stringere i denti e andare avanti, volendo aver addosso solo unb urqua e dovendo dimostrare che se sei qualcuno devi fare qualcuno.

o sei altro. artista? artista...ma cosa vuole dire? cosa vuol dire che sei strano? cosa vuol dire?

ridete. nei giorni bui, ridete. a squarciagola.

vi giuro, mi viene da prendervi a pugni in bocca. ma poi so che dentro quei giubbini lì giro culo qualcuno c'è.
il problema è che te non lo sai che ci sei. è un giorno buio anche per te.

e danziamo, facendo finta di niente, facendo finta che vadabene e vadamale, che ciao come va, che tutto bene grazie e auguri se non ci vediamo.

è quasi natale. lo sento brutto. ci scontriamo. poi no, è solo paura.

vorrei uscire con le scarpe rosse quando fuori c'è neve e non sentire il peso sulle spalle che mi fa sprofondare, il peso di non aver addosso il cappotto marrone.
ma è un giorno buio, metterò i moonboot, farò una piroetta e sorriderò.

lo so. sì lo so e lo sai, ma saperlo a che serve? allora ci metteremo le infradito il 3 di gennaio con -2 gradi solo per sentire che effetto fa il ghiaccio sulle unghie tagliate perchè non è più estate e non ti stanno nelle scarpe.
e aspettando l'atobus che non passa scriveremo t'amo sulla ghiaia e il vento e la grandine e la neve e la pioggia ce lo porteranno via.
è un giorno buio, andiamo a berci un caffè al bar, a spazzolarci i capelli in bagno, a soffiarci il naso e non accarezzare i gatti degli sconosciuti. chiudiamo il cancello. i balconi e facciamo finta, che vada tuttobenetuttomale.

12.20.2011

una banana al giorno

lo ammetto. ti ho tremendamente sottovalutato.
ma ecco come le cose, sono andate, in prospettiva.

avere ventanni. e vivere alla cazzo. o almeno credere di farlo.
prendere lo stesso mezzo, tutti i giorni, per fare, almeno per parte del giorno, la stessa cosa.

sali, scendi, salgo, scendi.
ci vediamo, senza vederci. poi passi, poi via.

incontrarsi senza conoscersi, valutarsi, sotto o spravvalutarsi? annoiarsi a morte.
o no, passare dei momenti, a caso, insieme, per caso, uniti dal tram tram della vita.

siamo qui, sono lì, sei lì per caso.
fotoricordo in bianco e nero sbiadite dal tempo, le faccio scorrere veloci.

lo ammetto. ti avevo sottovalutato.
te e quel tuo fottuto modo odioso di parlare.

in prospettiva, se l'avessi capito, avrei evitato di crederti tedioso, cosa che per altro continui ad essere.
rimane comunque il fatto che ti avevo sottovalutato.

mi mangio una banana, per farmene una ragione.

12.14.2011

minaccie o minacce. micce o miccie.

va bene dire cazzate a tutte le ore. ha un valore terapeutico fortissimo.
anche dire le parolacce. questa pratica ho scoperto essere diffusa e da svariati anni.
entrambe le pratiche hanno una funzione taumaturgica: di colpo ci si sente vivi e liberati. ma l'effetto dura poco, il tempo di aver finito di dire merda, di dire una barzelletta e alè siamo di nuovo a crucciarsi.
allora più cazzate, più parolacce, più libertà. vero. in parte però.

in alcuni momenti si ha il bisogno di concentrarsi un po' su quelle parole dette per liberazione e ragionarci su. riflettere sul loro vero significato, non su quello che non gli attribuiamo, o sul significato riportato a carattere 3 sul devoto oli. il vero significato di quelle parole non sta in una o nell'altra lettera, ci sta attorno.

personalmente mi sento circondata da cazzate/parolacce. ma queste non sono usate con la funzione, consapevole, di cui qualche riga su. no, queste sono usate nella convinzione che il significato sia altro, che abbia quasi un valore nobiliare, che neppure il devoto oli basti a contenerne l'essenza.

credo di non essere chiara, in questo momento, e con una cazzata direi, per forza, non mi chiamo mica così.
però ragioniamoci un attimo: questa cazzata, divertente magari la prima volta che la senti, fa sorridere me e anche un po' te che stai leggendo fin qua, sempre che non ti si siano "fiapà e bae", nel qual caso, caro avventore, è il caso che tu vada a comprare un compressorino portatile.
per gli altri invece, questa cazzata, significa altro. insomma è una stronzata consapevole.
altra storia è, completamente altra, quella che spinge a credere che il significato di ciò che diciamo sia scritto lì sul devoto. lo diamo per scontato ogni volta che pronunciamo la parola ciao, ad esempio. nel devoto magari l'etimologia c'è anche, ma chi già non la sa di suo, si è chiesto cosa vorrà davvero dire? è un saluto, certo, ma è anche altro. era altro, ma esserselo scordato non ci giustifica.

allo stesso modo, quando si usano le cazzate/parolacce, senza consapevolezza, si cade in quel tranello lì. ci si sente giustificati. e allora tra sè e sè è una bella consolazione, giustificarsi, ma quando si tratta dell'altro, è meglio almeno aprire il devoto, sbirciare, e poi continuare.

il bisogno quindi di concentrarsi un po' non è cosa per tutti eh. non è l'esercizio più facile del mondo o il più semplice. non è che ragionandoci un po' si possa evitare di incorrere nella tremenda giustificazione, questo no, ma, e credo che sia tutto qui il valore, si può cercare di evitare di far incorrere l'altro nello giustificarvi.

amico fiapà, con te non ho speranze, ma con gli altri sì, e magari anche a loro non è che sia molto chiaro.
allora ve lo spiego così: se dici pò e te lo faccio notare e credi di essere nel giusto e vieni insultato. ecco a quel punto minimo un giro sul devoto (o google tipo) te lo devi fare. e no, non per acculturarti, che tanto ormai non c'è speranza, semplicemente per riflettere giusto quei tre secondi prima di minacciarmi. ecco.

12.12.2011

l'uomo è un animale (?)


partiamo da un presupposto: l'uomo è un animale.

se qualcuno vuole contraddirmi su questo faccia pure, ma l'uomo è un animale secondo la definizione standard che divide il mondo nei tre regni classici. (sì, i funghi metteteli dove vi pare però)

non c'è un se lo è, lo è.
allora dato che lo è:
lasciate che l'uomo viva sopraffatto dalle leggi di natura: se il cucciolo che partorisce non è adatto a vivere, lasciate che lo lasci morire, abbandonato da qualche parte, o che lo uccida.
se il suo simile gli ruba cibo, lasciate che lo uccida.
se in due si è pochi, ma in trenta si è troppi, lasciate che i più deboli muoiano.
se per portare avanti la specie c'è bisogno di accoppiamenti multipli e incessanti tra l'epoca della pubertà e quella della menopausa lasciate che avvengano

come dite? l'uomo ha fatto delle regole sin dall'antichità per ovviare alla natura?
dite?

no, perchè a me è sembrato che a Torino, tipo ieri, ci fossero solo animali.

io l'uomo, quello lì che ha fatto delle leggi, che vive nella civiltà come la chiamate voi, io, mica l'ho visto.

12.09.2011

*****...wait for it...*****

scegli una carta, mi intima, una sola però, scegliene una, dai... mi chiedo perché, che cosa stupida, mi dico, poi pesco dal mazzo. è nera, dice, è fiori, è 4 di fiori, vero? io dico sì. e rimetto giù la carta. poi sfodero il mio savoir faire, che non è un saperci fare, è conoscere le regole del gioco, e la regola dice, dire ad alta voce con tono entusiasto, ma come hai fatto? e intanto sbatti le ciglia e schiocchi le mani, va, già che ci siamo, e aspetti la risposta, che è sempre e solo, ehhhhhhh non te lo posso dire, magia.

sta tutto lì. il savoir faire.
allora stavo pensando se sta tutto lì, basta impararlo.
ma poi mi perdo un po' dietro questi pensieri e finisce che mi chiedo "come mi è venuta st'idea?" (o quell'altra, insomma non importa l'idea, ma il come). come quindi?

ecco su questo processo mentale, quello che non è savoir faire, avrei qualcosa da dire. chiamatemi allucinata.
un'idea non può dipendere dal savoir faire, non completamente almeno. ci deve, e son sicura ci sia, dell'altro.

se è magia? no, ma quale magia. stavo pensando a una pubblicità che ho visto di recente, legata a questa cosa, una pubblicità di un alcolico: il video è diviso a metà: stesso personaggio che fa le stesse cose, ma nel lato sx dello schermo risulta uno sfigato, in quello dx invece uno cool, per usare un'inutile inglesismo.
sul savoir faire ci siamo: entrambe, che poi son lo stesso, sanno "come si fa", però i risultati son diversissimi.
cosa cambia, allora, tra i due?
chissà cosa voleva dimostrare il pubblicitario, non lo so. ma io ci vedo solo questo gap enorme, e io mi chiedo solo, come lo colmi quel gap?

sta tutto lì. il colmare il gap. che non è possedere il savoir faire.il know how. è qualcosa d'altro.

ma cosa?
e torno al come: come mi viene un'idea? possediamo più o meno tutti lo stesso bagaglio di savoire faire. quello di base è lo stesso, tutti sappiamo come rispondere al mago. do per assodato questo.
ma com'è che ti viene naturale o ci devi pensare? com'è che le azioni, le reazioni, e tutto questo bagaglio, si esprime in modo così diverso da individuo ad individuo?
come a me viene un'idea e come a te viene un'idea?
"come" uno è sfigato e "come" uno non lo è.

non ho una risposta. e non so se la troverò.
ma mi son fatta delle domande.
ad una di queste ho deciso di rispondermi con 203 (sì, 42 era scontato.).

ho così colmato un personale gap.


12.07.2011

questa sera...

sono qui:
http://www.facebook.com/events/309706045709196/
come performer eh mica cazzi.

12.05.2011

la vanga e il rastrello

storia malata di un inutile amore/odio tra la vanga e il rastrello.

C'era una volta una vanga, non una qualunque, era una vanga con un certo prestigio.
La Vanga veniva riposta ogni notte nel ricovero degli attrezzi 6x4 metri. Legno massiccio. La Vanga aveva un manico di faggio ed era di acciaio inossidabile. Forte e potente, in un secondo spezzava un ramo secco. La Vanga non temeva il caldo e il freddo e poi tanto usciva allo scoperto due tre volte l'anno, in primavera per un nuovo raccolto da crescere, a fine estate per far riposare la terra. La Vanga era nuova, scintillante, priva di nodi, bellissima.
Rastrello viveva desolato adagiato alla rete metallica ormai consunta, stropicciata dal tempo, così arrugginita che solo a vederla ti veniva il tetano. Lui stava lì, giorno, notte, pioggia e vento. Gli si era storto il manico l'inverno prima, e ora, dopo l'ultima ghiacciata, gli si era spezzato circa a metà. qualcuno gliel'aveva ricucito con chiodi arrugginiti e ora, storto com'era, poteva esser buono solo per raccogliere i fiori. Le sue dita, una volta blu, tendevano al marrone scuro. Era ferro ricoperto, ferro che fu, ora solo ruggine. Aveva anche perso qualche dita, qualche altra era spezzata. Ma lui stava lì. Ogni stagione era buona per lui: togliere un po' di neve d'inverno, raccogliere l'erba tagliata, l'erba che non serve più, le foglie cadute in guerra, le lacrime degli alberi deturpate, i cachi sciolti insieme ai fichi. Rastrello era sempre lì, a fare il suo lavoro, certo con dignità, ma con fatica, sempre più fatica.
La Vanga lo guardava quelle 2 volte l'anno che usciva, lo guardava e lo compativa, in realtà non lo capiva, ma in fondo, era un po' triste per quel suo collo sempre più rotto, per le sue dita sempre più mal ridotte. Un po' si dispiaceva che Rastrello non vivesse al caldo, un po', invece, ne era quasi contenta, forse le avrebbe fatto un po' schifo trovarselo in casa.
Rastrello la guardava, dondolandosi sulla rete, sperando di essere notato, si dondolava quasi sino a cadere. La guardava sfilare davanti ai suoi occhi. Non era amore il suo, era invidia, più che altro, non la capiva. Usciva due volte l'anno e non lo filava mai, non gli rivolgeva lo sguardo mai. Rastrello si sentiva solo lì fuori, avrebbe voluto sapere cosa succedeva a casa di La Vanga, avrebbe voluto un po' di caldo, un saluto, un aggiustatina decorosa.
I due si vedevano due volte l'anno, e per entrambe le volte essi facevano finta di non esistere per l'altro. Credevano che l'altro non li capisse.

Un giorno però accadde qualcosa di nuovo nella vita di entrambe. La Vanga uscì in pieno luglio: il sole era accecante e non capiva cosa stava per succederle. Rastrello la vide uscire, essere scossa vigorosamente, la vide mentre se ne andava, ma non capiva dove. Finalmente La Vanga comparse dalla porta, e gli si adagiò accanto. Rastrello era stupito, sconvolto, non capiva. La Vanga era terrorizzata, dimenava il suo busto di faggio, voleva scappare, ma non aveva scelta, doveva stare lì. Rastrello l'ammirava, era nuova, bellissima. Lei era schifata, e aveva paura, paura di diventare come Rastrello. Cosa che successe, di lì a pochi mesi, quando entrambi si trovarono, legnosi, a dondolarsi sulla rete alla vista di Trattore.

Sia che tu sia nato Rastrello, che nato Vanga, non ti preoccupare, arriverà sempre qualcuno a farti le scarpe.